Richiesta di aiuto, capitolo 27

27.11.2014 18:15

I cinque eroi iniziarono il viaggio finale verso KamaGroom, la Montagna Vivente. Skava-Thor guidava la piccola imbarcazione, mentre Sun-Tri e Gallion Wong erano attenti che le Sirene non tentassero attacchi a sorpresa. Al centra della piccola barca c'erano GS e la Magloya. Il terrestre si era seduto a gambe incrociate, trovandosi inizialmente a disagio a causa del suo fisico possente. Il ragazzo aveva intenzione di sfruttare il tempo del viaggio per terminare l'operazione iniziata, sotto l'albero, poco prima di partire.

Chiuse gli occhi e si concentrò sul vuoto. Fu più difficile rispetto a prima, perché dovette adeguarsi al movimento ondulatorio della barca. Per sua fortuna l'umanoide non soffriva di mal di mare. Sfruttò il movimento dell'imbarcazione a suo vantaggio, come se qualcuno lo cullasse e conciliasse, così, il riposo della sua mente; perché la seconda operazione fu quella di svuotare la mente, vuotarla dal senso di fatica e di dolore come se qualcuno percuotesse le sue membra, liberarla dai numerosi pensieri che l'affollavano come gente che si reca al mercato del paese e, quando finalmente fu libera, GS iniziò a concentrarsi sul suo corpo. I muscoli possenti erano anche flessibili, li sentiva in tutta la loro potenza, ne avvertiva la forza ma doveva operare un mutamento prodigioso!

Focalizzando tutta la sua attenzione sul proprio corpo, GS iniziò a pensare agli allenamenti, al tempo in cui si allenava presso il dojo del maestro Mike. Posizioni basse, movimenti rapidi e potenti, rotazione dell'anca ed il braccio che partiva dall'anca affinché il pugno centrasse il bersaglio.

Ore ed ore passate sul tatami, avanti e indietro; le gambe che facevano male, il sudore che colava dal viso e la fatica che diventava una presenza ossessionante.

Voglia di mollare tutto, fermarsi e riposare quando la fatica diventava un avversario troppo difficile da battere ed il corpo e la mente gridavano all’unisono di fermarsi. Gli occhi si muovevano verso l’orologio e si capiva che era già da oltre due ore che continuavano ad allenarsi senza interruzione… poteva anche bastare! Ma poi i suoi occhi incrociavano quelli del suo maestro, il sensei Mike, e allora capiva che non era ancora arrivato il momento di fermarsi.

Fare appello alle energie residue, cercarle con disperazione perché mentre il corpo continuava a gemere ed i muscoli imploravano l’agogniato riposo, la mente si era – invece – svegliata e gli diceva di non mollare, che c’erano ancora energie residue da qualche parte. Bisognava trovarle e darvi fondo.

Forza di volontà. Era l’unica cosa a cui si poteva fare appello quando non c’era null’altro a cui aggrapparsi. Bisognava convincersi di potercela ancora fare, gridarselo nella testa ed era come se quelle parole bastavano a gettare via la stanchezza.

Nuovo vigore, le membra affaticate ed i muscoli doloranti sembravano aver recuperato ed allora riusciva a proseguire l’allenamento. Zenko Sudachi, oi tsuki per dieci volte, fino a quando non si arrivava in fondo al tappeto. Mawatte e di nuovo Zenko Sudaci e oi tsuki.

Mokuso, così si chiamava l’ultimo esercizio. Ci si accomodava in posizione seiza, si chiudevano gli occhi e si svuotava la mente. Dopo cinque minuti ci si alzava più rilassati e si andava a fare la doccia. Mentre l’acqua scorreva sul corpo, portando piacere alle membra intorpidite, ci si chiedeva se tutta la fatica fatta avesse un fine, uno scopo. Allora non si vedevano tutti i benefici del karaté, ci si aspettava che il corpo fosse vigoroso e sano anche senza. Quanto ci si sbagliava! Di ritorno a casa, mentre uno degli ultimi treni percorreva i binari della circumvesuviana – la linea che attraversava i paesi vesuviani – le immagini dell’allenamento tornavano alla mente, quando si chiudevano gli occhi e si appoggiava la testa al finestrino per riposare.

La giornata era iniziata negli spogliatoi, al cambio. Atleti di altre discipline si cambiavano assieme a lui. C’erano i ragazzi del taekwondo, contraddistinti da quell’aria di superiorità, i ragazzi del judo – futuri campioni – gli atleti che facevano pesi e quelli che avevano preferito la ginnastica. Dopo aver posato la borsa sulla panca, aveva preso il gi e lo aveva riposto sulle assi di legno; successivamente si era spogliato e lo aveva indossato, allacciando la cintura verde in vita.

Mentre metteva a posto la borsa, aveva lanciato un’occhiata ai ragazzi del taekwondo: bardati nelle protezioni sembravano moderni samurai pronti alla sfida. Un sorriso si era disegnato sul suo giovane volto, aveva afferrato i guantini e si era diretto verso il tappeto.

 

Karate-do wa rei ni hajimari rei ni owaru koto a wasaru na: il karate comincia con il saluto. Così recita il primo dei dei nuju kun, le venti regole create dal sensei Funakoshi, fondatore dello stile Shotokan. Una volta saliti sul tappeto ci si metteva tutti in fila per ordine di anzianità e si eseguiva il saluto. Un secondo dopo si iniziava immediatamente l’allenamento con la corsa per il riscaldamento.

Il riscaldamento non comprendeva solo i venti giri di corsa del tappeto, quello era solo l’inizio. L’allenamento iniziale comprendeva anche numerosi esercizi ginnici, uniti ad una serie di addominali, flessioni e altro. La prova più esaltante era certamente la sfida degli addominali. Dopo aver eseguito la normale serie di addominali, ossia cinque o sei serie da cinquanta o sessanta addominali l’una, si procedeva con una serie finale di addominali ad oltranza. L’ultima serie non aveva un limite, la fine era decretata solo dall’ultimo atleta che continuava a fare addominali quando tutti gli altri si erano fermati. Un’altra prova molto interessante era lanciarsi in corsa mentre un compagno tirava un grosso elastico di gomma che cingeva la vita del corridore. La prima parte dell’allenamento, che durava quasi un’ora, era composta anche da numerosi altri esercizi, quali saltare in una serie di cerchi, correre in equilibrio sulla pertica, arrampicarsi con la sola forza delle braccia. Al termine della prima parte dell'allenamento era già sfinito ma sapeva di avere ancora molte energie da spendere, soprattutto in vista della parte più interessante: quella marziale.

Dopo una breve pausa, durante la quale si rifocillava bevendo acqua, tornava sul tappeto ed era allora che si iniziava la parte più dura dell'allenamento. Si partiva con le posizioni basse, con gli attacchi semplici basati sull'uso dei pugni e dei calci, successivamente una lunga serie di parate, poi si arrivava al combattimento libero e ci si batteva contro un avversario per tre minuti, poi un altro per altri tre minuti, poi un altro ancora e alla fine si sosteneva un combattimento contro più avversari insieme.

Il tempo sembrava essere volato ma, proprio quando si iniziava ad avvertire la vera fatica, l'allenamento non era ancora finito perché bisognava praticare i kata. Gli atleti si dividevano per gruppi ed il più anziano di ogni gruppo prendeva posto di fronte agli altri e decideva il kata da eseguire in base al livello degli atleti. Le cinture bianche e quelle gialle si allenavano sull’heian shodan, le cinture arancioni eseguivano l’heian godan e le cinture verdi cercavano di perfezionare l’heian yondan.

Quello era il nome del quarto kata della serie heian, pace e tranquillità del quarto livello. Un kata molto complesso e c’era bisogno di eseguire tutte le tecniche alla perfezione, con tutte le posizioni ed i cambi di direzione attuati con sicurezza, se si voleva ottenere un punto di arrivo corretto.

Anche in questo caso le parate erano lente, accurate ma potenti, e non prevedevano contrattacchi; la lentezza delle tecniche rendeva il kata stilisticamente bello. I punti innovativi per un principiante erano gli yoko geri (calci laterali) ed i mawashi empi (percosse di gomito). Anche se lento, l’Heian Yondan era un kata potente, nel quale il praticante doveva sferrare i colpi con tecniche precise.

La cintura blu, Gerard, era molto severa e pretendeva il massimo impegno ecco perché, molto spesso, ordinava agli allievi di grado più basso di ripetere il kata anche altre due volte e dopo, quando avevano ripetuto fino all’estremo l’Heian Yondan, ecco che si iniziava con un altro kata ed era quello il momento in cui cominciavano a fare male le gambe ma si trattava di un dolore sopportabile.

 

Skava-Thor si chiedeva cosa stesse facendo il colosso. Si era seduto in quel modo strano da quando era cominciato il viaggio, teneva gli occhi chiusi ed il suo respiro era appena percettibile, sembrava quasi che fosse morto.

Mentre faceva in modo che l'imbarcazione procedesse lentamente lungo il suo percorso, lo scienziato lanciò occhiate agli altri membri della compagnia. Il regale Gallion Wong sembrava una statua di bronzo, i muscoli scolpiti e le spalle possenti, lo sguardo attento e l'espressione del volto regale. Portava addosso i segni della sua avventura, ferite – per fortuna non gravi – la tunica logora e sbrindellata ai bordi ma, nonostante tutte le peripezie cui era andato incontro nel corso di quella pericolosa missione, Gallion Wong non aveva perso la sua fierezza, la regalità di un grande sovrano e sembrava ancora possedere una forza straordinaria.

L'uomo insetto, il sunsiano Sun-Tri, era difficile da interpretare, causa anche il suo aspetto poco umano, quindi Skava-Thor non riusciva a comprendere il suo stato. Sun-Tri sembrava, comunque, un osso duro. Il suo corpo poteva apparire esile ma nascondeva delle capacità incredibili. Sun-Tri era un guerriero e lo aveva dimostrato sia nella palude di fango, contro gli umanoidi mollicci, che contro le Sirene Scorpione. I suoi attacchi erano crudeli e letali, oltre che rapidi, e possedeva delle armi di luce incredibili, che spuntavano improvvisamente dal nulla. L'armatura che copriva la parte superiore del suo corpo era già rovinata dopo pochi giorni ma ciò non crucciava l'eremita guerriero che sembrava nato solo per combattere. Infine, l'ultimo membro di quella variopinta compagnia, era la Magloya, un essere tanto straordinario quanto misterioso. Era una femmina della sua specie, la misteriosa razza dei Maglor che viveva in un punto ben preciso dell'enorme foresta che circondava la Città di pietra dei dendrai. Le sue capacità mimetica la rendevano invisibile ed era anche in possesso di una grinta che ne faceva un'ottima compagna di ventura. Cinque compagni di ventura, tutti così diversi da loro, avevano scelto di unirsi per fermare la terribile invasione e, benché non ne sapesse molto in merito, Skava-Thor aveva deciso di partecipare alla pericolosa partita per le sorti di un mondo che, almeno in quel frangente, non riconosceva più come suo. Il destino, elemento che non aveva mai realmente accettato in quanto uomo di scienza, aveva decretato che fossero loro a tentare l'impresa, che solo in cinque cambiassero l'avverso fato di quel mondo. Ma c'erano degli impedimenti, la missione era a rischio.

Se abbassava la sguardo, lo scienziato vedeva quegli impedimenti brillare negli occhi delle sirene. Le perfide creature dall'aspetto tanto invitante e delicato, gli esseri i cui occhi proiettavano infinite promesse di beatitudine, li seguivano senza mai perderli di vista. Intorno a loro si era alzata una strana nebbia e doveva essere calata anche la temperatura. Entrambe le rive del lago erano ormai distanti, non potevano tornare indietro... potevano solo andare avanti.

Skava-Thor si chiedeva cosa stessero aspettando le sirene, perché non attaccavano? A giudicare dal loro numero avrebbero potuto facilmente ribaltare la barca, farli finire tutti in mare. Lo scienziato lanciò uno sguardo nelle nebbie, come se volesse penetrarle con i suoi occhi. Chissà quante altre di quelle creature acquatiche si nascondevano al sicuro tra le nebbie. Cosa stavano aspettando? Non lo sapeva ma sarebbe andato avanti come stavano facendo i suoi nuovi alleati... anche se il destino che li attendeva era più che mai incerto.

Diresse l'imbarcazione avanti per molto tempo, tanto che nemmeno egli avrebbe saputo dire quanto fosse stato ma alla fine intravide la costa. La maestosa montagna si ergeva dinnanzi a lui come un dio dormiente, un essere divino che era meglio non svegliare. La sua altissima vetta si perdeva ben al di sopra delle nuvole, lì dove il suo sguardo non riusciva a spingersi. Lampi bluastri sembravano squarciare le nubi, come se sulla cima del monte fosse in corso un temporale. Non vedeva un temporale dal giorno in cui aveva abbandonato la sua terra morente, ogni volta che c'era stato un temporale, dopo che lui e la sua gente si erano insediati nella città di pietra, era tornato sotto le rocce, al sicuro in un mondo che ormai gli era ben più congeniale di quello esterno. Sembrava esserci una spiaggia davanti a loro, sabbia bianca e altissimi alberi; pareva che la costa fosse disabitata. Del fumo usciva dai piedi della montagna e sembrava il respiro soporoso di un gigante addormentato, un essere dalle dimensioni ciclopiche dotato di un enorme corpo di pietra scura, intorno al quale la vita sembrava essere fuggita via se si escludeva la presenza degli alberi e qualche altro scorcio di vegetazione. Skava-Thor lanciò uno sguardo in alto e vide la flebile sagoma dei due soli attraverso il banco di nebbia. Era come se anche gli astri che donavano vita a tutto il pianeta impallidissero al cospetto dell'enorme montagna. Sun-Tri e Gallion Wong fissarono il gigante di roccia e, per la prima volta da quando lo aveva incontrato, Skava-Thor vide comparire qualcosa di simile alla paura sul volto del ferino sovrano. L'uomo insetto produceva uno strano rumore, un verso strano e del tutto incomprensibile come del resto era tutta la sua lingua. Le dita artigliate dell'uomo insetto si serrarono ancor più intorno all'elsa di luce ed il suo corpo assunse la posizione tipica di un guerriero quando si prepara a combattere contro un avversario invincibile. Per la prima volta da quando erano saliti sulla piccola imbarcazione, gli occhi della Magloya si staccarono dall'umanoide chiamato GS e si posero sulla maestosa montagna. I suoi lineamenti si contrassero in quella che sembrava una smorfia di terrore.

Skava-Thor capì che almeno tre dei quattro membri che lo avevano accolto in quella missione, conoscevano quella montagna. Durante il breve periodo in cui non erano stati attaccati, Gallion Wong e Sun-Tri avevano spesso scambiato quattro chiacchiere a proposito di quella montagna e nessuno dei due pareva ottimista sulla scalata che si accingevano a compiere. Ma solo dopo aver visto con i suoi occhi quella che GS gli aveva descritto come KramaGroom, la Montagna Vivente, aveva capito perché nei discorsi di due guerrieri tanto coraggiosi trasparisse chiaro il timore reverenziale.

La Montagna era un essere vivente, qualcosa di pensante che non amava le intrusioni o, almeno, così l'avevano descritta i due guerrieri nei loro discorsi. Osservandola si percepiva chiaramente che qualcosa di vero c'era in quelle parole, eppure Skava-Thor, in quanto uomo di scienza, non poteva crederci. Era nato su quel planeatoide e sin dalla sua nascita aveva speso ogni giorno a favore di una causa di vitale importanza per la sopravvivenza del suo popolo: contrastare le radiazioni mortali. Non si era mai interrogato su cosa si trovasse al di là dei confini della sua terra avvelenata né se lo era mai chiesto dopo il loro insediamento nella città di roccia. Dunque era quello, che si trovava oltre i confini della sua regione, quegli stessi confini segnati da enormi costoni rocciosi ai limiti della grande foresta. KramaGroom, la Montagna Vivente sembrava essere l'enorme dominatore di quella regione e Skava-Thor si sentiva così piccolo al suo confronto da impallidire ancor di più. La maestosità di KramaGroom gli fece dimenticare persino le reiette creature che circondavano la barca e quando, spinto dalla curiosità, lo scienziato si guardò intorno, si accorse che le sirene erano sparite!

Forse anche quelle creature abiette temevano l'enorme Montagna Vivente come fosse un dio che aveva potere di vita e di morte persino sul loro regno: il lago. Dal momento che le fastidiose sirene erano sparite, il traghettatore poté rilassarsi e guidare la barca fino alle rive del lago.

 

Dopo l'esecuzione, ripetuta più volte, del complesso quinto kata della serie Heian, l'allenamento non poteva considerarsi ancora terminato. Ignorando la stanchezza doveva misurarsi con i suoi compagni in una serie di kumite liberi. Il primo avversario era Filippo, più giovane di lui di qualche anno e poco più alto. Il saluto, la posizione di partenza, poi si dava inizio al combattimento. Si trattava di una prova, quindi i colpi non venivano portati per fare del male all'avversario ma erano ugualmente decisi ed era impensabile non provare dolore. Gli scambi erano rapidi, attacchi frontali col pugno o con i calci, l'altro indietreggiava, parava e cercava di colpire l'avversario prima che questi riuscisse a metterlo fuori combattimento. Il bello del Maestro Mike era che non preparava per le gare sportive ma affinché i suoi allievi fossero in grado di resistere alle sfide della vita. Il karate diventava un mezzo per rinforzare il proprio carattere, acquisire fiducia in se stessi e, soprattutto, tranquillità. Anche in un ipotetico scontro in strada i suoi allievi dovevano essere preparati. Lo stile del maestro Mike non era fondato sulla spettacolarità – quella veniva dopo, solo dopo anni di allenamento – ma sull'essenza della tecnica. Per risolvere un combattimento bastava un pugno, un calcio e se questi non fossero bastati allora, e solo allora, i suoi allievi avrebbero sfoggiato una serie di tecniche col fine di fermare l'avversario.

L'allenamento presso il do jo era diviso in periodi. C'era un periodo per la preparazione alle gare sportive, e gli allievi che decidevano di dedicarsi alla carriera sportiva lo proseguivano per la maggior parte dell'anno, un altro per la spiegazione delle tecniche comprese nei kata e per la loro applicazione reale e c'era il periodo dell'approfondimento dei kata e dell'uso delle armi. Quest'ultimo era riservato a coloro che avevano raggiunto il livello di cintura blu. In questo modo il karate non era solo uno sport ma diventava un'arte vera e propria ed era molto interessante scoprire come i vecchi maestri avessero scoperto ed elaborato alcune tecniche.

Dopo i tre kumite liberi si ripetevano alcune tecniche semplici più e più volte ed era in quel momento che iniziavano i veri problemi. Il corpo era al limite, i muscoli dolevano e la fatica annebbiava la mente ma era allora che il maestro richiedeva il massimo impegno. Posizioni basse, movimenti rapidi, colpi portati con la massima precisione, tre passi in avanti e tre indietro, tre passi in vanti e tre indietro e gli correvano veloci verso l'orologio, nella speranza che l'allenamento terminasse prima che la fatica prendesse il sopravvento. Gli ultimi minuti passati nel do jo si trasformavano in una lotta contro il tempo in cui quest'ultimo si dilatava e rendeva la fatica un fardello difficile da sopportare...

GS riaprì gli occhi e si guardò intorno. Erano appena approdati ai piedi di KramaGroom: la Montagna Vivente. Il cielo era coperto da nubi terribili e tutto intorno c'era solo desolazione, le uniche tracce di vita erano rappresentate da alberi e cespugli. La temperatura si era di colpo abbassata, nonostante i due soli risplendessero con ferocia nel cielo. La mano di Sun-Tri su posò sulla sua spalla possente.

Ecco, questa è KramaGroom!”.

GS annuì e lanciò uno sguardo verso le nubi che ne celavano la cima, il punto in cui gli invasori avevano posto la propria base.

Strano che non ci siano guardie” – Disse Gallion Wong, osservando le piccole barche abbandonate lungo la riva.

Forse gli invasori hanno preferito lanciare tutti gli uomini a loro disposizione all'attacco”.

GS non era molto d'accordo con la versione dell'insetto. Il motivo era un altro e, forse, la Montagna non permetteva nemmeno ai potenti invasori di violare il suo suolo. Doveva essere per quel motivo che nessun nemico era stato posto a difesa delle imbarcazioni. E, del resto, chi poteva essere tanto folle da avventurarsi su KramaGroom?

Ma la Montagna Vivente divenne l'ultimo dei loro problemi, quando le acque del lago iniziarono a ribollire. Skava-Thor indietreggiò, la Magloya iniziò a soffiare in direzione delle acque increspate e Sun-Tri strinse ancor più l'elsa della sua arma inseparabile.

Qualcosa sta emergendo dalle acque del lago” – Disse Gallion Wong – “Ecco perché le Sirene erano scomparse”.

Fu GS a terminare la frase – “Sono andate a chiamare qualcuno o qualcosa che riposava nei profondi abissi!”.